La Confessione e la segretezza: uno studio canonico sui primi secoli

 Fin dalle generazioni sub-apostoliche, con l‘affermarsi delle pratiche  penitenziali, si è affermato il principio secondo il quale l‘atto di pentimento, e precisamente l‘atto di accusa dei propri peccati, è coperto dalla più stretta riservatezza. E da qui è nato l‘istituto del sigillo sacramentale.  Il ministero sacerdotale poi conosce altre forme in cui media la relazione  tra il fedele e Cristo, e quest‘opera è stimata parimenti intima e privata. Il vincolo del segreto accompagna il sacramento della Penitenza fin  dai primi secoli: esso, già nel contesto della Penitenza Canonica costituiva un elemento necessario. Salvo i peccati più gravi, che di loro natura erano di rilevanza pubblica e da tutti conosciuti - come l‘omicidio,  l‘adulterio e l‘apostasia - gli altri peccati dovevano invece essere accusati  personalmente al vescovo, o al presbitero da questi incaricato, da parte di  colui che chiedeva di entrare nell‘ordo dei penitenti. A quel punto a  divenire pubblica era la penitenza imposta, e mai i peccati che ne erano  all‘origine.


La stola viola che attende i penitenti alle porte del presbiterio...

E proprio in quanto il dato è da sempre pacifico l‘età dei Padri conosce pochi pronunciamenti circa il sigillo sacramentale; ma seppur pochi, tali pronunciamenti sono chiari e mai contraddittori. Un primo dato certo circa la segretezza dell‘accusa risale all‘anno 459 quando Papa Leone Magno intervenne nei confronti dei vescovi  campani per riprovare un‘usanza che in quella regione era andata  diffondendosi: 

Dispongo che venga rimossa in tutti i modi quella temerarietà che è anche  contro la regola apostolica, di cui recentemente ho appreso, che viene  commessa da alcuni con uso illecito. Circa la confessione cioè che viene  richiesta dai fedeli; che non si proclamino in pubblico dichiarazioni scritte  su taccuino circa il genere dei singoli peccati, essendo sufficiente che la  colpa delle coscienze venga manifestata ai soli sacerdoti con confessione  segreta. Sebbene infatti sembri essere lodevole una pienezza di fede, che  per timore di Dio non abbia soggezione di arrossire presso gli uomini,  tuttavia, giacché i peccati di tutti non sono di tale specie che coloro che  chiedono la confessione non sempre [non] temano di renderli pubblici, sia  rimossa una consuetudine tanto inaccettabile, acciocché molti non vengano  allontanati dal beneficio della confessione, perché o si vergognano o hanno  timore che vengano svelati ai loro nemici fatti in base ai quali potrebbero  essere colpiti dalle disposizioni di legge. E‘ sufficiente, infatti, quella confessione che viene offerta prima a Dio, poi anche al sacerdote, che si aggiunge come intercessore per le mancanze dei penitenti. Infatti parecchi  potranno essere invogliati alla confessione unicamente se la coscienza dei  penitenti non verrà resa pubblica alle orecchie del popolo [1].

Leone quindi parlava di un obbligo di segretezza che non ammetteva  eccezioni, fondato sulla regola apostolica a cui si contrapponeva una  consuetudine inaccettabile da riprovarsi. La segretezza era additata come  elemento che, favorendo la pratica sacramentale, consentiva l‘incontro  con la grazia per la salvezza. Origine esponendo il valore del sacramento della Penitenza,  nell‘Omelia II del Commento al libro del Levitico [2], invitava i penitenti a  non occultare i propri peccati, ma a manifestarli per ottenere la salvezza Origene quindi percepiva chiaramente quanto il perdono dei peccati  sia opera esclusiva di Cristo, il quale agisce per mezzo dei sacerdoti della  Chiesa. E con esegesi allegorica il padre paragona l‘amministrazione del sacramento della Penitenza al servizio levitico in cui il solo sacerdote poteva presentare il sacrificio nei reconditi penetrali del tempio gerosolimitano. 

Il Vescovo Afraate (+346) comandava ai confessori di non svelare i peccati loro manifestati, e di agire coi penienti come con pazienti gravemente malati, dei quali non si racconta i loro malanni, ma piuttosto si da loro una buona medicina [3]. Il Concilio armeno chiamato "Tovoniense" del 527 condanna con l'anatema i sacerdoti rei di aver violato il segreto confessionale. San Paolino di Aquileia (+802) scrive: 

E se compiamo un peccato dopo il battesimo, il buon Dio ha dato il secondo battesimo, quello della fonte delle lacrime, ed egli ha ordinato per noi il pentimento a causa della nostra fragilità. […] Chi è un sacerdote saggio e un medico esperto dovrebbe prima sapere come curare i suoi peccati e poi le ferite di un altro scoprire e curare, e non pubblicare i peccati (del fratello).

Papa s. Gregorio Magno (+604), nella Regola pastorale, così insegnava:

Poiché la carità si eleva a meravigliosa altezza quando si trascina con misericordia fino alle bassezze del prossimo; e con quanto maggior benevolenza si piega verso le infermità, tanto più potentemente risale verso l‘alto. Coloro  che presiedono si mostrino tali che quanti sono loro soggetti non arrossiscano di affidar loro i propri segreti, affinché, quando si sentono come bambini  nella lotta contro i flutti delle passioni, ricorrano al cuore del Pastore come  al seno di una madre; e con il sollievo della sua esortazione e le lacrime  della sua preghiera lavino le impurità della colpa che preme e minaccia di contaminarli. [5].

Nel corso dei secoli VIII- IX andò affermandosi la pratica della Penitenza "Tariffata" (ovvero con una penitenza da compiere per essere assolti) sotto l‘influenza dei monaci irlandesi. Il contesto socio –culturale era decisamente diverso rispetto a quello da cui era germinata la forma della Penitenza Canonica. Ora alla confessione segue immediatamente la penitenza (o soddisfazione): questa, elemento di novità, si mantiene nella dimensione della sfera privata del penitente (non più chiamato ad espiare le colpe davanti alla comunità). E‘ noto poi che era possibile di far compiere ad altri le penitenze ricevute, segno del contesto culturale barbarico secondo il quale occorreva non tanto un‘espiazione personale, quanto un‘oggettiva riparazione dell‘offesa resa a Dio, colmando il vulnus aperto nella giustizia divina dal peccato. In determinati casi era addirittura necessario affidare ad altri l‘espiazione delle  proprie pene: un contadino non poteva abbandonare famiglia ed averi per  darsi alla crociata o al pellegrinaggio a Gerusalemme, o ancora dedicarsi  per mesi all‘ascesi e alla preghiera: pagava dunque un altro per compiere la penitenza (o i servizi) al posto suo. E‘ importante osservare che in nessun caso, nemmeno in quest‘epoca,  si sono conosciuti fenomeni di delega o pubblicazione dell‘accusa. Se ne  deduce che tale passaggio mantenne inalterata la dimensione strettamente personale della manifestazione dei peccati, e correlativamente, il  dovere di nulla divulgare.

La prassi della Penitenza tariffata portò ad una certa confusione. Così in epoca carolingia si affermò una restaurata pratica della Penitenza pubblica secondo l‘assioma «a peccati pubblici, penitenza pubblica; a peccati privati, penitenza privata». Le penitenze pubbliche potevano consistere in pellegrinaggi, magari presso la tomba di qualche santo particolarmente venerato, oppure nella crociata. Nel medesimo tempo il metodo di riflessione teologica, grazie all‘affermarsi della rivalorizzazione della filosofia di matrice aristotelica, sviluppò l‘interesse a trovare in ogni realtà la sua essenza, l‘elemento costitutivo: così la riflessione Scolastica giunse a determinare come «materia» del sacramento gli «atti del penitente» e come «forma» l‘assoluzione del sacerdote. Tra gli «atti del penitente», necessari per la valida celebrazione, si poneva l‘accusa personale dei peccati, quale espressione esteriore del cammino interiore. Ciò che avveniva quindi tra penitente e sacerdote si affermava come elemento irrinunciabile, nella sua inalterata segretezza, per giungere a ricevere l‘effetto salvifico dell‘assoluzione.

Dal punto di vista sacramentale, il sacerdote è tenuto alla riservatezza anche post-mortem del penitente. 

Dopo questo breve excursus storico fra alcuni dei santi Padri del primo millennio, vediamo chiaramente come il segreto confessionale esiste da sempre nella coscienza della Chiesa: guai a coloro che infrangono il Sacramento della Confessione!

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NOTE

1)LEONE MAGNO, Lettera «Magna indignatione» a tutti i vescovi della Campania del 6 marzo 459,  in Dh 323.

2) ORIGENE, in Patrologia Graeca, Migne, Paris, 1862, to. XII, par. 196, 429

3) AFRATE, in Patrologia Syriaca, p. I, to. I, a cura di R. Graffin, Instituti Francici Typographi, Parisiis, 1894, 318 - 31 

4) PAOLINO DI AQUILEIA, in Patrologia latina, Migne, 1851, to. XCIX, 257 – 258

5) GREGORIO MAGNO, Regola pastorale, Città Nuova, Roma, 2005, 78; anche in Patrologia 
latina, to. LXXVII, Migne editorem, Paris, 1849, 33.

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