Autori e scritti delle origini presenti nella Regola di San Benedetto - Pacomio -

  Secondo articolo di Aloisio Alessio Gullo sul tema "eredita' benedettina". 

Scrivere oggi su san Benedetto non è un qualcosa che nasce dall’esigenza di soddisfare sterili aspirazioni di conoscenza,  limitate ai propri gusti  o alla propria sfera culturale, la riflessione su Benedetto è davvero più  fondamentale di quanto si possa pensare e l’attualità del suo pensiero e della sua opera la rende oltremodo indispensabile.

Ho in mano un testo recente e famoso dello scrittore americano Rod Dreher dal titolo L’opzione Benedetto, lo sto leggendo con particolare interesse per diversi motivi, il primo è dovuto alla provenienza, diciamo pure “laica”, certamente non monastica o in qualche modo appartenente all’articolato mondo benedettino, a riprova della profondità di un pensiero che non cessa mai di arricchire e di richiamare.

Il secondo motivo è dato dalla necessità di approfondire le forti critiche provenienti in particolare da alcuni gesuiti attraverso la loro rivista “Civiltà Cattolica”, critiche che hanno provocato decise reazioni e che,  almeno come la vedo io, hanno ottenuto un risultato opposto a quanto voluto, spingendo il lettore ad un più profondo esame del contenuto del libro; peraltro, entrando nel merito, le critiche mosse mi sembrano molto “pasticciate” (confuse), ma, come si sa, spesso servono per mettere meglio a fuoco il contenuto di un pensiero. 

Ma per quale motivo questa premessa? Semplicemente perché prova la grande attualità della Regola di Benedetto, che ancora oggi non cessa di infiammare gli animi  e di parlarci. 

Come si sa la “Regola” è in assoluto uno dei libri più stampati e diffusi e ciò non deve stupirci, perché il testo è profondamente ispirato ed è per questo che il Patriarca del monachesimo occidentale ha ancora oggi molto da dire agli uomini, come dimostra anche il libro di Dreher, che ne attualizza la lezione.  

Leggendo la Regola di Benedetto, sorge quasi spontanea la domanda sulla sua originalità. Avvertiamo subito che la Regola, che possiamo definire assolutamente cristocentrica, ci colpisce fin dalla prima parola per il chiaro e forte invito all’ascolto. Il forte e paterno invito, assimilato dalla Sacra Scrittura, ci apre alla dimensione verticale che parte dalla chiamata a cui l’uomo deve aprirsi per fare spazio in se stesso per ricevere; non ha al momento nulla da dire, ma ha molto da fare, deve ascoltare.

Già dall’incipit possiamo notare come la Regola sia ricca di riferimenti ad altri Padri e scritti precedenti. 

Questa non è una novità ed è lo stesso Benedetto, che, nel definirla breve, la conclude con un chiaro invito a leggere i Padri.

Un ulteriore passo per la comprensione del testo, si accompagna alla constatazione che una delle caratteristiche del monachesimo delle origini è l’abbondanza di scritti, davvero tanti, si tratta di detti, vite e regole.

Eppure la maggior parte di essi non ci consentono di trovare gli elementi costitutivi, da noi utilizzati oggi, per definire un testo una vera regola.

Infatti è innegabile che la nostra mentalità giuridica, soprattutto in Occidente, non ci fa definire regola un testo dove una comunità non sia ben strutturata e organizzata e non siano posti in essere strumenti determinati, atti a disciplinare il funzionamento della comunità stessa e la sua vita.

Ma nel primo monachesimo non sempre funziona così e pertanto le regole, così come le intendiamo noi, sono rare.

Ciò che ci è stato tramandato è costituito, in massima parte, da un insieme di scritti riportanti episodi frammentari o detti dei padri, anche se non mancano le biografie, prima fra tutte quella di Antonio abate.

Per comprendere questa mancanza dobbiamo comprendere il pensiero dei primi monaci.  

Ci rendiamo subito conto che per loro l’esempio e l’insegnamento anche verbale delle grandi figure del deserto rappresentava un modello da seguire, da imitare, quindi una regola vivente.

Basti pensare alla vita di Antonio che suscita una grande schiera di imitatori, sia in Oriente che in Occidente, la sua sola figura e, successivamente, la sua biografia saranno una vera regola di vita. 

Per tale motivo viene chiamata da San Gregorio Nazianzeno una “Regola monastica sotto forma di racconto” (De Oratione, 21,5).   

Ma in fondo questa carenza di normativa poggia le sue ragioni sulla convinzione che le vere regole sono le Sacre Scritture.

I monaci avevano per modello Cristo e vedono nell’esempio dato dai loro “iniziatori” una tangibile possibilità di seguire Cristo, che è l’unica vera regola da professare.

Tuttavia  è evidente che appaiono le prime regole di vita, tra le quali, per quanto detto,   fanno parte a buon diritto la Vita di Antonio, le parole e i detti dei padri (Apoftegmi dei padri).

Se rileggiamo queste figure, questi insegnamenti, in vista della Regola di San Benedetto,  ripercorrendo, quindi, storicamente il cammino precedente, la prima cosa che risulta evidente è che il Padre del monachesimo occidentale  non è un isolato.  Alla luce dell’iter storico-spirituale intrapreso, il suo insegnamento appare come il risultato di una sintesi equilibrata  delle esperienze che lo hanno preceduto e che lui ha saputo in maniera originale riproporre,  filtrandole con il suo spirito pratico, degno di un antico romano.  

Questa profonda assimilazione dei testi delle origini, in Benedetto, avviene in maniera graduale e sembra seguire le tappe della sua vita, come ce l’ha tramandata papa Gregorio nei Dialoghi. Nulla è più vero di quanto di lui dice papa Gregorio, quando lo definisce Maestro di discrezione. 

Ma in quale misura le cd “fonti” hanno influenzato il suo pensiero, o  rappresentano soltanto un  “obiter dictum”,  che non condiziona il pensiero di Benedetto, e quindi non intacca la piena originalità della Regola.

Siamo di fronte ad un patrimonio comune, a tradizioni e conoscenze diffuse che passano nella Regola quasi naturalmente, senza manifestare una tendenza  di Benedetto? Oppure siamo di fronte a precise scelte?

La soluzione la troviamo in primo luogo nella profonda assimilazione della Scrittura che Benedetto considera sua fonte, Scrittura di cui sono imbevuti anche gli scritti degli altri Padri, significativa presenza condivisa che dona assonanza ai testi messi a confronto.  

Ma dobbiamo considerare anche il lavorio di maturazione avvenuto in Benedetto, che conosce anche indirettamente i testi riscontrabili nella sua Regola, che lui non adatta, ma interpreta e utilizza al proprio fine, così come lui stesso ci dice nel capitolo LXIV, laddove invita l’abate a saper estrarre dalla Legge “cose nuove e cose antiche”.

Ma quali sono gli scritti precedenti che vanno considerati in quanto presenti nella Regola e che manifestano la forte personalità di Benedetto e l’equilibrio che traspare dalla sua Regola,  frutto della sua capacità di riunire elementi fortemente centrati sul singolo, provenienti dalla tradizione egiziana che si riporta ad Antonio ed elementi marcatamente comunitari, provenienti da Pacomio, Basilio ed Agostino. 

Certamente molto ampia è la serie di scritti e biografie, ma qui ne riportiamo solo alcuni Padri: Pacomio, Basilio, Agostino, Eucherio, Regola dei IV Padri, Cassiano, Lerins, Martino, Eugippio, Il Maestro, cercando di cogliere in che modo sono giunti a Benedetto.

Al momento prendiamo solo in esame la possibile influenza degli scritti pacomiani e il ruolo esercitato da Cassiano, nella trasmissione. 



Va precisato subito che Benedetto è molto vicino alle origini del monachesimo e alle fonti, in particolar modo a Cassiano, che può essere considerato il “grande mediatore” delle istituzioni egiziane.

Grazie a Cassiano conosce gli scritti pacomiani, che appaiono presenti nel suo rifarsi alla Koinonia, che sta alla base del cenobitismo, è evidente che Benedetto attinge come fonte ad una catechesi di Pacomio stesso, in cui l’abate egiziano sintetizza la base essenziale della vita comune: “tutti si rechino profitto, affinchè tu rechi profitto a tutti”(PACOMIO, Catechesi, Le Fort, Oevres de Saint Pachome).

Ma sempre con riferimento alla comunità, Pacomio non è l’unica fonte, Benedetto potrebbe avere trovato spunti anche in Cassiano, Basilio, Agostino, e nella Regola dei 4 Padri, ma certamente se prende qualcosa lo fa in modo originale, in funzione del modello di comunità che lui vuole realizzare, una vera “Scuola del servizio divino”, formata da cenobiti che Benedetto definisce: “ fortissima specie”.  

Altro punto di contatto è la centralità del Vangelo. Per Pacomio la via che guida è il Vangelo, in cui è contenuto tutto ciò che i monaci devono fare quotidianamente per piacere a Dio  (J.LEROY, Esperience di Dieu et cenobitisme primitif).

Questa lezione passa attraverso Cassiano che definisce il cenobitismo “evangelica perfezione”. 

Benedetto la riprende, perché la riconosce come  fondamento della vita monastica e ciò è esplicitato nella famosa frase “per ducatum evangelii”. 

Altro tema, molto presente e caratterizzante in Pacomio è quello della figura e del ruolo dell’abate, Benedetto lo fa in parte suo e così come nella “Regula Magistri”, inizia la Regola con la figura dell’abate. 

Il testo più vicino a lui e appartenente alla tradizione pacomiana, è il  “Libro di Orsiesi”. Orsiesi mira a riportare la comunità allo spirito di Pacomio e dopo una esortazione, simile al Prologo della Regola di San Benedetto, tratta direttamente della gerarchia monastica e dell’obbedienza, rimandando sempre alla volontà e alla fraternità di Pacomio, che occupa un posto fondamentale nella koinonia “pater qui primus instituit coenobia”. Questa paternità si prolunga attraverso i successivi abati. Orsiesi, come dopo di lui avrebbe fatto il Maestro, accredita Pacomio paragonandolo a Paolo che affida il “Depositum” a Timoteo, giustificando così la successione e la trasmissione dell’autorità, il tutto nella consapevolezza delle parole di Gesù stesso che dice: “Padre non ho perduto nessuno di coloro che mi hai dato” (Gv 18,9). 

Di fatto Orsiesi assimilando Pacomio a Paolo stabilisce una relazione fra cenobio e Chiesa, invitando i pastori monastici alla vigilanza in applicazione di Luca 2,8-12.

Inoltre, Orsiesi richiama il compito di pascere il gregge (Gv21,15-16), questa impostazione è anche quella della Regula Magistri, ed è posta a fondamento del potere abbaziale. Com’è noto, infatti, il Maestro sostiene il parallelismo nella gerarchia dei pastori tra Vescovo e Abate, basando ciò sulla Parola di Cristo.

Benedetto ne assimila, l’insegnamento, distaccandosene, almeno apparentemente,  perché non riporta nella sua Regola, il passo giovanneo (Gv 21,15-16).

Tuttavia questo allontanamento da Orsiesi e dal “Maestro” non va assolutizzato perché è lo stesso Benedetto a dire dell’abate: “ Christi agere vices in monasterio creditur” . Di sicuro Benedetto condivide con la tradizione pacomiana (Pacomio, Orsiesi e Teodoro) la certezza che l’abate è legato dal precetto del Signore in ciò che insegna, che stabilisce o comanda;  Egli è il pastore (il buon pastore riprende la Regola di San Benedetto), L’abate, a cui è affidata la Regola, è il servo del Signore che dà ad ognuno ciò di cui ha bisogno. 

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