In particolare, sappiamo che nei giorni di digiuno (ogni mercoledì e venerdì dell'anno, e tutti i giorni dei quattro periodi di digiuno e le tempora) divenne usuale celebrare i Vespri e farli subito seguire dalle Collationes o da altre lezioni sugli Scritti dei Padri.
San Benedetto non era un avaro o taccagno, come si evince dalla Regola: per esempio, consigliava ai frati un’alimentazione frugale, riservando la carne solo agli ammalati. Prevedeva due pasti al giorno, ciascuno con due piatti caldi, 450 grammi di pane e un quarto di vino a persona. Ma nei periodi di digiuno, il santo di Norcia voleva forzare le abitudini dei monaci nella miglior tradizione ascetica antica e promuove il regime di un solo pasto al giorno, eliminando anche latticini e nei giorni di magro, anche il pesce. Il regime alimentare proposto dalla regola benedettina era, in ogni caso, un regime sano e naturale, anche se abbastanza monotono, condizionato inoltre dalla produzione agricola stagionale e dalla diversa collocazione geografica dei monasteri e pertanto anche della conseguente diversa qualità degli ingredienti usati per la preparazione delle vivande, che avrebbero dovuto in ogni caso essere presentate sulla mensa monastica in modo quasi sempre uniforme, giorno per giorno, mese per mese, in modo così monotono da allontanare i cenobiti da ogni forma di intemperanza e golosità. Nel 41esimo capitolo della Regola, san Benedetto esprime la preferenza che la "refezione serale" sia compiuta prima del buio; sicuramente ha in mente molte frasi di S.Paolo (cf. Rom.13,12-13; Ef.5,8-14; 1Tess.5,5-8) sulla notte come simbolo di tutti i peccati: in particolare di quelli della bocca. Gli Antichi credevano che mangiare e parlare fossero sconvenienti di notte, che è un tempo per il raccoglimento in preghiera o il riposo. I pagani, invece, erano soliti compiere lunghi banchetti di notte.
Per quanto riguarda la tipologia di alimentazione, possiamo dedurre che - tolta la carne - i monaci subissero la casualità del luogo scelto per il monastero e dipendevano dunque dalle produzioni agricole stagionali. La ricchezza di una abbazia si misurava anche dalla presenza di olio, vino, miele e altri prodotti giudicati opulenti, come le spezie per insaporire i famosi "piatti caldi", i pulmentaria. Volendo fare una stima, la dieta benedettina dovrebbe consistere in un 20% di pesce, uova e formaggio, in un 18% di pane, in un 20% di vino, in un 2% di spezie (o cipolle, aglio, rafano e altri prodotti locali) e in un 40% di legumi ed ortaggi (che avevano quasi un valore mistico, essendo un metasegno di povertà ed umiliazione) o di frutta. La rinuncia a certi cibi dalle forti valenze semiologiche (in particolare la carne rossa, connessa al sangue e quindi alla caduta di Adamo e al fratricidio di Caino) e la frugalità estrema in determinati periodi dell’anno, attraverso l’astinenza da certi cibi ed il digiuno, tendevano ad assicurare la salute dell’anima al fine di perseguire tre obiettivi: vincere il vizio della gola e indirettamente quello della lussuria, considerato connesso al primo; essere coerenti con la propria professione di povertà e indirizzare gli animi alla preghiera ed alla meditazione, cioè rafforzare l’impegno mistico del monaco, che avrebbe potuto facilmente essere distratto nella sua spiritualità dalla eccessiva pomposità della dieta.
Il significato del digiuno come preparazione per i misteri che si contemplano nei periodi di magro è ovviamente presente anche nella spiritualità benedettina, così come in generale in tutta l'esperienza ascetica ortodossa, ma le prescrizioni monastiche di san Benedetto sono senza falsi virtuosismi né richieste impossibili. San Benedetto, tramite la sua Regola, si manifesta come un uomo sensibile e attento alla realtà umana, nella quale intravede << l'uomo medio >> che cerca di elevarsi e cerca soprattutto la preghiera e la contemplazione, non la fatica inutile e la stanchezza.
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